Questo articolo è uscito sullo speciale Economia 2020 della rivista Lo Jonio.

Le crisi strutturali si dispiegano in pochi mesi: arrivano all’improvviso (quasi mai anticipate), non è chiaro subito come affrontarle e spesso – nella frenesia – non se ne approfitta per ripartire in modo diverso. Questa crisi è diversa dalle altre perché ci ricorda l’insegnamento più grande e meno accettato di Darwin: l’uomo è un animale che fa parte della natura e dipende da essa, non può ignorarne gli equilibri.

All’inizio dell’anno la crisi sembrava essere circoscritta ad un’area ben delimitata, anche se era chiaro che avrebbe avuto delle ripercussioni economiche in tutto il mondo. Come già avevo scritto in febbraio su queste pagine, i forti legami dati dalle catene globali del valore e dagli spostamenti veloci di uomini e beni attraverso il globo ci hanno reso più vulnerabili al contagio. La risposta delle autorità nazionali ed europee è stata, se non veloce, sicuramente impegnativa, anche se la sua efficacia è dipesa molto dalla capacità delle amministrazioni di implementare le politiche.

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La crisi sia di produzione che di domanda ha determinato un crollo ancora più forte del PIL in tutti i paesi. L’OCSE, sottolineando l’alta incertezza che pervade questo momento storico, stima un crollo del PIL mondiale del 6% per il 2020 se non ci sarà una seconda ondata per l’epidemia, con un aumento della disoccupazione per i paesi OCSE che passerà dal 5,4% del 2019 al 9,2% per il 2020. E le stime per l’Italia sono ancora più pessimistiche: una caduta del PIL dell’11,3%. Sottolineerei per il nostro Paese altri due dati: la perdita stimata di un milione di occupati e la riduzione del 23% degli investimenti privati. Tutto questo senza considerare un’eventuale seconda ondata che potrebbe avere effetti economici ancora più forti e prolungati.

La mia paura è che si pensi che tutto dipenda dal Covid19 e, finita la pandemia, si possa tornare a vivere, lavorare e produrre come prima. Invece i dati di medio-lungo periodo ci dicono che il Covid19 ha solo messo in risalto criticità già esistenti a tutti i livelli: dalla debolezza pluridecennale del sistema italiano, passando per le risposte dell’Unione Europea, fino alle relazioni fra Cina e Stati Uniti.

I nodi del Bel Paese sono venuti al pettine, nella gestione dell’emergenza (le differenze regionali nella sanità), nella vacuità di alcuni settori troppo dipendenti dall’estero, così come nell’enorme vincolo determinato dal debito pubblico. L’Unione Europea ha mostrato difficoltà istituzionale nel mettere d’accordo i vari paesi con idee e sensibilità che non aiutano la cooperazione. La crisi pandemica ha esacerbato lo scontro per la leadership mondiale fra Stati Uniti e Cina. Una delle poche note felici è la BCE, che continua ad esser il vero baluardo non solo dell’euro ma direi dell’Unione stessa: è intervenuta da subito massicciamente per difendere la stabilità monetaria, quella del sistema bancario ma anche la sostenibilità dei debiti pubblici (inevitabilmente lievitati), rischiando uno scontro istituzionale con le corti tedesche.

La prima cosa da fare è affrontare (finalmente) di petto queste criticità, sia a livello nazionale che europeo. Per individuare dove “investire” e cosa fare credo che sia essenziale prendere atto delle sfide che secondo me ci troviamo di fronte (anche senza il Covid19): la rivoluzione tecnologica, il cambiamento climatico e le asimmetrie fra i vari paesi dell’Unione.

L’Europa deve cambiare passo, diventare grande e capire che l’unica possibilità che ha di esser giocatore sullo scacchiere mondiale è quello di diventare una Federazione. Questo permetterebbe da una parte di avere una politica fiscale comune e dall’altra di portare il coordinamento in un Parlamento in cui i nazionalismi siano piano piano confinati. Il finanziamento del recovery fund pone una prima pietra in questa direzione.

Più complicata è la sfida per l’Italia. Dalla caduta del muro di Berlino (se non prima) stenta a trovare una sua dimensione. Prima di tutto va pensato un progetto di medio-lungo periodo, un’immagine del Paese che vogliamo da qui al 2050 da tenere presente quando si prendono decisioni, una strategia collettiva. Operiamo, da troppo tempo, in ordine sparso; dobbiamo invece costruire riforme o politiche in modo integrato avendo come prospettiva almeno venti-trent’anni.

Questa è l’occasione per sfruttare l’allentamento del patto di stabilità e il recovery fund per investire strategicamente nel blu (le tecnologie)e nel verde (un nuovo rapporto con la natura). Darei priorità a quattro ambiti.

Innanzitutto, un investimento nello sviluppo di nuove tecnologie adeguando le infrastrutture telematiche (portando la banda larga ovunque), riprendendo le linee principali di Industria 4.0 e spingendo la pubblica amministrazione a investire in tecnologia europea. Questo darebbe forza ad un processo di acquisizione e sviluppo di conoscenze endogeno al sistema come quello avvenuto in Cina negli ultimi anni.

Allo stesso tempo, un investimento deciso nelle risorse rinnovabili anche per ridurre il costo dell’energia delle nostre imprese; così come nello sviluppo di modi di produzioni nell’ottica dell’economia circolare.

Certamente è poi necessaria una profonda riforma del sistema amministrativo che semplifichi e renda più rapido e trasparente il rapporto fra i cittadini, le imprese e lo Stato. Gli strumenti ci sono, ma le resistenze al cambiamento sono molto radicate. Il nostro futuro dipende in larga misura da quanto sapremo approfittare di questa crisi per rinnovare le strutture del paese e ridurre il ritardo rispetto all’Europa.

I tre ambiti precedenti necessitano di alta conoscenza. Investirei quindi fortemente in scuola e università, i grandi dimenticati di questa epidemia. È lì che si gioca la partita vera, investirci vuol dire (ri)costruirsi un ruolo chiave nelle catene globali del valore basate sulla tecnologia e migliorare il nostro posizionamento all’interno dell’Unione Europea.

La partita è complessa ma va giocata con azioni immediate e uno sguardo al dopo domani. La direzione da intraprendere è chiara, per ripensare l’Italia e ripensare l’Europa.

PENSARE LA MACROECONOMIA