È stata la mia lettura dell’estate, uno dei suggerimenti di DDG. Quella che mi ha fatto compagnia mentre bevevo il caffè al mattino in campeggio o davanti all’oceano a La Rochelle.
Il libro è intenso e ha diversi piani di lettura, anche se non sempre esplicitati. E anche questa recensione sarà un po’ lunga.
L’idea di fondo si può riassumere così: il motore della crescita economica è da ritrovarsi in quei settori che spingono gli aumenti di produttività. L’aumento della produttività è dato dalle invenzioni che sviluppano la tecnologia. Le invenzioni sono opera dell’uomo e per averne un maggior numero è necessaria un’alta concentrazione di uomini con abilità (skill) elevate. Ci sono forze centripete nel mercato che aiutano la concentrazione di queste capacità in città/zone ben delimitate. Questo fa sì che la geografia economica del lavoro si sovrapponga a quella dei settori e di conseguenza delle città, pochi centri grandi che producono ricchezza perché vi è presente un alto numero di lavoratori specializzati.
Questi presupposti aiutano l’autore a spiegarci come si sta evolvendo la geografia economica ‘americana’. Americana nel senso di Stati Uniti d’America. Non vi aspettate di trovare indicazioni su mondo, Europa o Italia. Questo libro è un libro sugli USA, presupponendo (?) che quel ciò che ora sta succedendo negli USA, accadrà, irrimediabilmente e nella stessa forma, nel resto del mondo. Le poche indicazioni che ci sono sull’Italia sono, in modo direi sorprendente, dei luoghi comuni. Uno su tutti riguarda la grandezza delle imprese italiane e la proprietà familiare e il loro ruolo nel limitare crescita e innovazione delle aziende. Peccato però che questa sia anche struttura tipica delle imprese tedesche. La differenza cruciale sta nel management: i capitalisti tedeschi lasciano più spazio al management esterno all’impresa che, meno conservativo, spinge più per crescita e innovazione. Fatte queste premesse, avrei voluto nella versione italiana di questo libro un titolo più coerente (o almeno un sottotitolo) e, soprattutto, che l’autore non si fosse sentito costretto a buttare qua e là qualche frase sul suo paese d’origine.
Lasciando stare le mie sterili polemiche, vorrei passare a discutere brevemente prima alcune delle teorie (che credo) sottostanti il lavoro, che lo rendono ricco e molto interessante. E, successivamente, quelli che ritengo i limiti del libro.
Moretti è un ottimo economista e si vede: il libro è ricchissimo dal punto di vista teorico. Mi soffermo sui tre richiami alla teoria che forse possono aiutare un lettore non attento: la produttività è il motore della crescita (anche delle città), la nuova geografia economica conta e, in fin dei conti, sarebbe importante tornare al pensiero dei fisiocratici.
Parto proprio dall’ultimo punto. Quella dei fisiocratici è una scuola di economia che si è sviluppata in Francia nel 1700. Riconosce un caposcuola in François Quesnay ed ha un libro di riferimento: il Tableau économique. Secondo Zamagni e Screpanti possiamo loro ascrivere tre fondamentali passi avanti della scienza economica: la differenza fra lavoro produttivo e improduttivo, l’interdipendenza fra i diversi processi produttivi e la conseguente rappresentazione degli scambi fra settori come flussi circolari. Usando il loro linguaggio, nel sistema economico individuiamo un gruppo di lavoratori produttivo, uno improduttivo ed uno distributivo. Il primo è l’unico in grado di produrre sovrappiù per l’intera società – per Moretti vi fanno parte tutti quei settori in cui è rilevante la creatività. Il secondo settore produce beni ma, per i fisiocratici non produce sovrappiù – nel libro possono essere identificati in questo gruppo tutti i settori che forniscono servizi ai lavoratori del settore produttivo: ristorazione, edilizia, in generale i servizi alla persona ma anche il manifatturiero con bassa componente innovativa. Infine, l’importante gruppo distributivo, a cui possiamo pensare (banalmente) appartenga l’1% della popolazione, quella proprietaria dei mezzi di produzione – e quindi del sovrappiù – che svolge l’importante ruolo di spendere le rendite per dare avvio al processo di circolazione della moneta tra i vari settori. Moretti, a onor del vero, non fa menzione anche se l’allusione è chiara.
Il gruppo produttivo è, quindi, quello capace di creare sovrappiù e, quindi, per definizione, aumenta la produttività dell’intero sistema. Qui si fa riferimento alla produttività come al rapporto fra prodotto finale e numero di lavoratori (o di ore dedicate al lavoro). L’aumento della produttività avviene attraverso lo sviluppo di innovazioni. Moretti ci spiega chiaramente l’attività innovativa, non limitandola a specifici settori, ancorché sarebbe facile e legittimo pensare all’high-tech. In generale, quello che accomuna questo gruppo di lavoratori è “l’uso intensivo del capitale umano, della creatività e dell’ingegno” (pag. 53). Per osmosi, quindi, l’aumento di produttività è appannaggio di quelle imprese che sono state in grado di far crescere al loro interno le menti migliori e le hanno lasciate libere di esprimersi per sperimentare sentieri imbattuti. La quantità e la qualità di capitale umano disponibile giocano un ruolo cruciale. Questo perché ci sono economie di scala rilevanti: più sono i lavoratori innovativi maggiore è la probabilità che emergano innovazioni importanti.
E veniamo alla geografia. Moretti mette subito in chiaro che non basta la qualità – il singolo Maradona del caso – ma è necessaria anche la quantità di lavoratori produttivi in un limitato territorio. Questo perché, nell’idea del distretto marshalliano, la concentrazione di lavoro qualificato permette più facilmente il trasferimento della conoscenza. So che può sembrare poco scientifico ma il trasferimento avviene molto per prossimità fisica e questa si può avere sia facendo l’aperitivo insieme al venerdì sera che passando da un’azienda all’altra dello stesso settore e della stessa città. Ci sono anche esperienze più interessanti in cui aziende – concorrenti – condividono la mensa e di modo tale che i lavoratori possano scambiarsi consigli e idee. Ed esiste coevoluzione fra la localizzazione delle imprese e la grandezza delle città: i lavoratori produttivi hanno bisogno di servizi alla persona e quindi attirano sullo stesso territorio anche i lavoratori improduttivi. La regione interessata ha quindi delle forze centrifughe che richiamano lavoratori dalle altre regioni, determinando in questo modo la geografia del lavoro e, di conseguenza, una separazione fra aree ricche e meno ricche. Se vi state chiedendo se esistano delle forze centripete (aree congestionate, inquinamento, solitudine del cittadino globale, gentrificazione e separazione dei quartieri, etc..), la risposta è sì, ma Moretti non ne discute.
Possiamo quindi mettere insieme questi tre elementi e riannodare i fili. Le imprese coi lavoratori più innovativi si concentrano in aree determinate, per sfruttare la ricchezza (qualità e quantità) dell’offerta di lavoro e la maggiore possibilità di trasferimento tecnologico che spinge le innovazioni e quindi la produttività. Questo processo si autorinforza e, di conseguenza, i lavoratori più produttivi si spostano dove ci sono le imprese più produttive. E vengono seguiti a ruota dai lavoratori improduttivi che sono occupati nei servizi alla persona. Si crea così un andamento chiaro: le aree più dinamiche/produttive/innovative si popolano, le altre si svuotano. E Moretti vi ricorda (fra le righe) che è inutile sforzarsi di contrastare tale processo: è il mercato che decide gli andamenti.
Veniamo, infine, a quelli che ritengo alcuni limiti dell’analisi:
1) manca una spiegazione di cosa produce/crea/sviluppa/fa emergere i lavoratori produttivi. C’è un po’ quella retorica stantia del “garage” in cui Page, Brin, Gates et al. hanno creato le loro innovazioni, senza sottolineare che non solo venivano da prestigiose università americane ma che non erano proprio dei poveracci/geni che si trasformano in imprenditori all’improvviso;
2) nella stessa linea, manca una convincente spiegazione sul perché si creino questi andamenti: sono i lavoratori produttivi che si spostano in uno stesso luogo o sono questi territori ad essere attrattivi? Sì, è la classica domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina… ma la risposta ha rilevanti conseguenze di politica economica. Roberto Antonietti mi ha spiegato che c’è un gran dibattito su questo e che Moretti, figlio della scuola americana, propende più sul primo aspetto: sono le menti brillanti che si autoselezionano e si muovono verso i lidi più promettenti, innescando l’intero meccanismo; in questo senso nel libro si fa riferimento alla scelta di Bill Gates di spostarsi a Seattle. Ovviamente le discussioni empiriche si sprecano e difficilmente arriveremo a una definitiva posizione;
3) ovviamente non riesco ad accettare la retorica di lasciar fare tutto al mercato, la trovo di retroguardia e contraria a quello che fanno la maggior parte degli Stati in tema di innovazione strategica. Sono molto più vicino alla posizione che vede lo Stato vero innovatore, così come discusso da Marianna Mazzuccato in “Lo Stato Innovatore”. Ne parlerò meglio in una delle prossime recensioni.
Buona Lettura