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La rivoluzione tecnologica in corso sta cambiando profondamente non solo l’economia, ma anche la geografia economica, il modo, cioè, in cui le attività economiche si dispiegano nelle città e nei territori. Per questo deve cambiare il nostro modo di pensare la città e il suo territorio. È vero, oggi, per le città ciò che vale per le imprese: bisogna cambiare, per intercettare l’innovazione, valorizzando le opportunità che esse offrono e governando le ripercussioni negative che possono avere. L’alternativa è esserne travolti, condannare il territorio al declino e alla marginalità.

Immaginiamo troppo spesso le innovazioni tecnologiche come processi senza soluzione di continuità, avanzamenti lineari e senza scossoni. E invece sono delle discontinuità profonde che portano cambiamenti nella sfera economica quanto negli assetti politico-sociali. Delle vere e proprie modificazioni del regime socio-tecnico in cui viviamo. Come rendeva chiaro Schumpeter: “100 carrozze non potranno mai creare una locomotiva”.

Abbiamo già attraversato la prima fase della rivoluzione. Non è più sottotraccia, ne percepiamo i sussulti, le potenzialità ma non vediamo bene ancora il distacco. Ma si sta dispiegando la seconda, la fase più complessa e delicata. Quella in cui non solo i metodi ma anche i rapporti di produzione all’interno dell’impresa (e fra imprese e consumatori) cambiano e, se non si presta attenzione, si arriva a mettere in discussione gli assetti sociali e politici più consolidati.

Ma perché, diciamo, come suggerisce il titolo, che cambia la geografia? L’avanzamento tecnologico è tale da favorire una forte concentrazione produttiva. Allo stesso tempo siamo nella cosiddetta knowledge economy (processi ad alta intensità di conoscenza e alta tecnologia), in cui la componente chiave è la capacità intellettuale dei lavoratori, che sono spesso molto concentrati territorialmente. Ciò vuol dire che la geografia economica del lavoro si sovrappone a quella dei settori e, di conseguenza, delle città: pochi grandi centri (o aree) che producono ricchezza perché vi è presente un alto numero di lavoratori specializzati. Se le imprese con i lavoratori più innovativi si concentrano in aree determinate per sfruttare la ricchezza (qualità e quantità) dell’offerta di lavoro e la maggiore possibilità di trasferimento tecnologico, le amministrazioni locali devono agire in questa direzione. Devono cioè creare i presupposti per un forte miglioramento della qualità della vita cittadina, in tutte le sue sfaccettatura. Altrimenti si cade in una spirale viziosa di bassa dinamicità/bassa innovazione/bassa qualità del capitale umano. E la conseguenza è l’arroccamento delle aree nei settori di rendita, come, in certe condizioni, può essere il turismo di massa: quello del mordi e fuggi, per intenderci.

È naturale che cambiamenti così pervasivi generino inquietudine nei singoli cittadini e incertezza in chi dovrebbe governarli: questi ultimi non sempre capiscono quale sia la posta in gioco e, spesso, non provano neanche ad elaborare una strategia a lungo raggio per lo sviluppo dei loro territori. Gestire e coordinare gli interessi di oggi sembra già un compito arduo, e così si rinuncia in partenza a progettare il futuro.

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Ma lasciare la rivoluzione tecnologica in balia dei venti dei mercati e, soprattutto, non rispondere alle inquietudini dei cittadini, rischia di aprire le porte a proposte demagogiche se non apertamente autoritarie. È necessario uno sforzo collettivo per salvaguardare l’interesse pubblico e il futuro della città : la comunità deve fare il possibile per limitare i costi del cambiamento e sfruttare al massimo le potenzialità dell’innovazione. È fondamentale un nuovo modello di Governo Pubblico che implichi necessariamente la valorizzazione e la messa a sistema delle risorse del territorio: pubbliche e private. E questa evoluzione può e deve essere guidata dall’intelligenza collettiva (si veda Geoff Mulgan e la intelligenza collettiva).

E quali sono allora i settori in cui può valere la pena concentrarsi? Ora, la rivoluzione tecnologica non riguarda un singolo settore ma è sistemica: porta sia alla nascita di nuovi settori che alla trasformazione e al rinnovamento di settori tradizionali. Anche la blue economy (espressa bene da Gunter Pauli) presenta queste caratteristiche: porterà cambiamenti sia nei modi di produzione che nelle relazioni politico-sociali. La blue economy non può che essere uno stravolgimento del modo di produrre. La decarbonizzazione non può semplicemente avvenire dando un prezzo al carbone (carbon pricing) ma necessita di uno sforzo collettivo coordinato per rompere la dipendenza dal percorso già effettuato (path dependence). Lo sforzo non può che essere dello Stato (innovatore) in grado di guidare il processo innovativo, mitigare gli effetti perversi dei cambiamenti e contrastare sia i lock-in cognitivi che gli interessi di breve periodo e breve respiro delle lobby.

Sembrano argomenti lontani dalla vita di tutti i giorni e soprattutto che riguardano le amministrazioni centrali piuttosto che quelle continentali. Invece, è proprio a livello locale che i cambiamenti devono esser portati avanti, che le sfide devono essere affrontate e che le rendite vanno spezzate.

L’Unione Europea nell’individuare la capitale verde guarda a ben dodici indicatori: cambiamenti climatici e interventi di mitigazione/adattamento; trasporti locali; aree urbane verdi e uso sostenibile del territorio; natura e biodiversità; qualità dell’aria; inquinamento acustico; produzione e gestione dei rifiuti; gestione delle risorse idriche; trattamento delle acque reflue; eco-innovazione e occupazione sostenibile; rendimento energetico; gestione ambientale integrata. Risulta chiaro che non si guarda solo alla gestione del verde pubblico ma, più in generale, ci sono spazi per il miglioramento del sistema produttivo e abitativo della città. È per questo motivo che noi Verdi Firenze abbiamo ragionato su un programma complesso con tante sfaccettature ma che abbia la lotta al cambiamento climatico e la blue economy come pensiero di fondo.

Prendiamo ad esempio la nostra proposta di Rifiuti Zero. Non si tratta di seguire semplici slogan come Plastic Free, gridati ai quattro venti solo per uscire sui giornali. Stiamo parlando di intervenire a diversi livelli della produzione dei beni, spingendo le imprese a proporre innovazioni per prevenire la creazione dei rifiuti (minimizzando o eliminando gli imballaggi), costruire dei beni che siano facilmente riutilizzabili o recuperabili. O spingere le nuove tecnologie in avanti per capire come rendere più efficiente la tariffazione puntuale.

La strategia rifiuti zero è una sfida per salvaguardare l’ambiente, ma anche e soprattutto per spingere il sistema produttivo in una direzione chiara. È sviluppare competenze, aprire a nuovi settori, applicare nuove tecnologie e creare posti di lavoro.

Oppure prendiamo la mobilità integrata (bici, treno, tram… e piedi). Il nostro progetto (su tram, servizio ferroviario di superficie, ad esempio) riguarda si il miglioramento dell’efficienza negli spostamenti con l’obiettivo di abbattere il numero di auto immatricolate da qui a 10 anni. E il fine è raggiungere tre obiettivi chiari:

1) migliorare la qualità dell’aria e ridurre l’impatto acustico delle auto;

2) aumentare il salario reale delle famiglie. Abbandonare l’auto permette di recuperare tutto il reddito famigliare che va nel costo di manutenzione della stessa, nella benzina, nell’assicurazione. Ma permette anche di ridurre lo stress nel cercare un parcheggio o gestire il traffico delle ore di punta;

3) diverse ricerche che evidenziano la forte correlazione fra i livelli di stress (di cortisolo in particolare) e l’incidenza delle malattie cardiovascolari, oppure fra le ore trascorse in auto a guidare e il diabete di tipo 2 e, non ultima, fra l’inquinamento e le morti premature. Ridurre l’inquinamento ha un beneficio quindi per la salute dei cittadini e anche sulla spesa del sistema sanitario nazionale.

Infine, crediamo che un rinnovato protagonismo dello Stato, con un nuovo modello di Governo Pubblico, non possa che far bene alla nostra economia. Chi crede ancora nel mito dello Stato minimo e non interventista, non ha che da guardare in giro per il mondo. Non vogliamo uno stato padrone, burocrate o assistenziale, ma uno Stato innovatore, capace di seguire una direzione condivisa che ponga al centro l’interazione fra uomo e natura e che non sia la mera massimizzazione del profitto (di pochi) e tanto meno della rendita.

PENSARE LA MACROECONOMIA